"Si tratta di tramare contro quel movimento perpetuo con lo stesso colpo con cui bisogna ricucirlo."

mercoledì 10 febbraio 2010


In Dreams di Neil Jordan ( 1999 )


I sogni hanno a che vedere col vero? Di quale realtà sono sembianti? Ove si colloca l’ombelico del sogno, quella dimensione interdetta che lo fa sgorgare dalla mente, che ne sostiene la retorica e il senso in un gioco di specchi in cui l'Io si scompone e si perde? Sogno imparentato a una verità menzognera, sospeso tra il narcisismo e l’angoscia, in bilico tra il rumore bianco del reale e il silenzio del corpo.
Sullo statuto di una verità delle "visioni" della protagonista, sulla ricerca del senso che necessariamente si impone, ingannevole, provvisorio, ma insieme unica risorsa di fronte all’angoscia di morte, sull’etica dell’atto che ne deriva, Neil Jordan nel film "In Dreams", lega i fili di un destino irrinunciabile, conduce Claire Cooper la veggente, l’eroina, là dove la sua scelta necessita ella sia, su quel discrimine tra la luce e l’abisso, in prossimità delle cortine della notte, ove, infine, possa godere di un lungo, interminabile, dolcissimo sonno. Ma è davvero tutto finito?
La proiezione del film si terrà giovedì 25 Febbraio dalle 19.30 alle 23.30 presso il Centro Eos, Centro Studi e Ricerche in Psicologia, Salita Pontenuovo 39 Napoli.

CINEMA E SOGNO


“Con straordinaria costanza mi capita di fare sempre lo stesso sogno: è come se volesse costringermi a tornare inesorabilmente in quei luoghi a me così dolorosamente cari, ad un tempo dove c’era la casa di mio nonno, nella quale vidi la luce più di 40 anni fa, proprio sulla tavola da pranzo, coperta da una bianca tovaglia inamidata. E, ogni volta che cerco d’entrare nella casa, qualcosa me lo impedisce. Faccio spesso questo sogno, ci sono abituato, e non appena vedo le pareti di legno scurite dal tempo e la porta socchiusa che si apre nel buio dell’ingresso, so già, pur nel sonno, che si tratta solo di un sogno e la mia incontenibile gioia si spegne nell’attesa del risveglio. Talvolta succede qualcosa per cui smetto di sognare la casa e i pini della mia infanzia, allora mi assale la nostalgia ed io comincio ad aspettare con ansia il ritorno del sogno nel quale mi vedrò di nuovo bambino e tornerò ad essere felice, perché tutto è davanti a me e tutto è ancora possibile”.
In questo breve densissimo passaggio pronunciato dalla voce fuori campo del personaggio del film di Tarkovskij, Lo Specchio, sono contenuti, quasi esemplarmente, una moltitudine di temi di interesse psicoanalitico. La ripetizione, la forza di attrazione mista al conflitto esercitata dai moti del desiderio infantile, il tema della soglia che si raddoppia sia nella descrizione del ricordo, che nel lungo piano sequenza (con l’immagine della madre che funge da raccordo fra le due inquadrature) e che fa pensare ad una trasposizione del fantasma nel sogno, infine la consapevolezza del sogno nel sonno ed il risveglio di fronte all’eccesso di soddisfazione del desiderio. Desiderio inconscio che ritorna nella forma dell’onnipotenza infantile di poter annullare il tempo e le possibilità di scelta che con il suo scorrere si esauriscono.
Cinema e psicoanalisi, quindi, ma quali sono i rapporti fra la pratica terapeutica inventata da Freud, basata sull’ascolto e sulla dimensione della parola, e l’ultima nata delle arti, fondata sulle possibilità offerte dalla tecnica di costruzione di un linguaggio per immagini?
Cinema e psicoanalisi nascono contemporaneamente nel 1895, anno di pubblicazione degli “Studi sull’isteria” e della prima proiezione a Parigi dei fratelli Lumiere ma, di fatto, questa co-nascita non comporta una immediata connaissance, fedelmente forse all’assunto di Lacan che ogni conoscenza è in fondo un po’ paranoica. Si ricongiungeranno solo dopo un lungo periodo in cui lo studio dei processi cinematografici è affidato alla psicologia dei processi cognitivi. L’interrogativo che Lou Andreas-Salomè annotava sul suo diario personale quando, ancora non psicoanalista, frequentava le riunioni del mercoledì della società di Vienna: “come mai il cinema non gioca assolutamente nessun ruolo per noi?”[1] dovrà attendere molti anni prima di essere formalizzato in una teoria dei processi inconsci, attivati dal mezzo cinematografico. In un primo tempo saranno una serie di lavori riguardanti la psicologia della percezione, comparsi sulla Revue Internazional de Filmologie, prima rivista internazionale della scuola filmologica, che si occuperanno di indagare quella particolare situazione psicologica che assistere ad un film comporta: regime di segregazione degli spazi, separazione e opposizione fra “la serie visiva” che passa sullo schermo e le “sensazioni propriocettive” che appartengono alla soggettività dello spettatore. L’incompatibilità fra questi due spazi, la sala buia e lo schermo luminoso su cui scorrono le immagini, il cui movimento è capace di mimare la visione psicologica, obbliga lo spettatore a sacrificare una serie all’altra, (la serie propriocettiva a favore di quella visiva), e a consentire quella situazione di passività e di credenza alla base dei processi di identificazione e dell’ impressione di realtà. “Non sono più nella mia vita, sono nel film che è proiettato davanti a me”, scrive Henri Wallon nel suo articolo sull’ “Act percetiv e il cinèma”.[2]
Ma, per un cambio di coordinate dalla centralità dei processi cognitivi, dagli studi sulla prevalenza della serie visiva alla base della traslazione percettiva, alla ricezione delle conseguenze della rivoluzione freudiana bisognerà attendere gli studi di Baudry e di Metz degli anni '70. Sotteso all’éffet cinéma non è solo un dispositivo capace di produrre l’impressione di realtà grazie alle condizioni della proiezione ma è implicato un soggetto desiderante, un soggetto diviso dal proprio desiderio e, dice Baudry: “si può supporre che è questo desiderio che influenza la lunga storia dell’invenzione del cinema: fabbricare una macchina simulatrice capace di proporre al soggetto delle percezioni che hanno il carattere di rappresentazioni.”[3]
L’immagine della caverna di Platone è richiamata da Baudry per evocare la posizione dello spettatore imprigionato nello stato filmico. Come questi ultimi sono vittime di un’allucinazione o di un sogno, di un’illusione nel rapporto di conoscenza verso la realtà, nello stesso modo lo stato e la posizione dello spettatore sono simili a quelli del sognatore o di chi è preda di allucinazioni.
Lo spazio sconosciuto de “die andere szene” del sogno e l’analisi strutturalista del significante cinematografico sono i due pilastri dell’assorbimento della lezione freudiana e del ritorno a Freud che lo strutturalismo di marca lacaniana consentiva.
Questo cambio di prospettiva convoca di fatto nell’analisi della spettorialità un nuovo personaggio: il soggetto dell’inconscio, distinto dall’Io. Il primo, il Je della terminologia francese, in relazione all’Altro del linguaggio in un rapporto di scelta etica inaugurale con il sistema simbolico; il secondo, il moi, sempre alle prese con i sostituti della prima alienazione all’immagine speculare. La superiorità della serie visiva riceve così l’imprimatur della fase dello specchio di Lacan e Baudry, di fronte a questo strano duplicato dello specchio dell’infanzia che è lo schermo cinematografico (in cui ci si rispecchia senza comparire), distinguerà due tipi di identificazione: quella secondaria ai personaggi della storia e quella primaria, all’occhio omnivedente della telecamera. Il significante immaginario, il cinema come significante stesso del desiderio è il testo con cui Cristian Metz, [4]nella scia di Baudry, trasferisce in termini di teorizzazione cinematografica il tentativo di Lacan di annodare intorno al personaggio del fallo la dimensione immaginaria e quella simbolica. Il fallo è lo strumento capace di giocare con la sua doppia natura di immagine e di mancanza simbolica, l’articolazione fra i due registri, di trasferire la libido immaginaria in termini di desiderio e di significazione per il soggetto. L’identificazione ai personaggi della storia diventa così possibile per via fantasmatica grazie alla permutazione soggetto del significante (soggetto della mancanza)- fallo. Per completare pienamente l’altro versante del fantasma, quello che ha un prolungamento nell’Altro, nel supporto che l’Altro offre per potersi immaginare come oggetto di quest’ultimo in una scena privilegiata, occorrerà integrare una fase dell’insegnamento di Lacan successiva alla fase strutturalista, quella dell’invenzione dell’oggetto a come supporto logico della pulsione.
Messo quindi in disparte l’Io che, come diceva Lacan riprendendo Rimbaud “è sempre un altro”[5], bisogna ritornare al sogno, per spiegare, oltre alla credenza nei personaggi della storia (basata come abbiamo visto all’identificazione secondaria via fallo) gli altri aspetti dell’illusione di realtà che si crea nello stato filmico.
Il sogno è una costruzione interna di immagini a carattere plastico, dotate di una connotazione percettiva multisensoriale (impressione di realtà) con nessi logici molto fluttuanti o assenti, prodotta da un uomo che dorme; il film è costituito dalla riproduzione esterna di immagini in una storia dotata di una forza diegetica coerente, che scorrono di fronte ad un uomo sveglio. Nonostante tutte queste differenze, però, le parentele sono più strette del previsto: uno stato di attivazione della coscienza è presente anche nel sogno; momenti di allontanamento dalla consapevolezza filmica, simili ad una caduta nel sogno sono presenti anche durante la proiezione del film; il grado di elaborazione secondaria è comunque variabile da sogno a sogno. La regressione percettiva è l’elemento che Freud nel capitolo VII della Traumdeutung individua come lo stratagemma offerto dal desiderio preconscio, ai moti di desiderio rimossi, per continuare a dormire. La forza di attrazione esercitata da questi sul polo percettivo, consentendo l’inversione della direzione del flusso progredente, permette il soddisfacimento allucinatorio della coscienza, (sotto lo sguardo vigile dell’istanza della censura che con le sue deviazioni ne contiene gli eccessi). Si è sempre un po’ svegli quando si sogna, anche se non si è capaci di pilotare il corso dei propri sogni come il marchese d’Hervey de Saint-Denys[6] in cui il desiderio di dormire aveva lasciato il posto al desiderio preconscio di osservare i propri sogni e di dilettarsene; inoltre si tende sempre un po’ a sognare anche al cinema quando i nostri fantasmi sono appagati (ma non troppo) dal sembiante della storia e delle immagini.
Al cinema (e non solo) si è sempre un po’ creduloni come il personaggio Pridamant di Corneille (ricordato da Metz)[7] che rigettava sugli altri la propria incredulità, per poter continuare a credere. La seduzione che la lanterna magica ci offre come protezione dall’impossibile del reale, ci consente di essere dupe in perfetta incredulità. E’ il Lacan della valorizzazione del sembiante.
Se volessimo trovare un collegamento fra Freud e Lacan in relazione alla inclusione della psicoanalisi nel cinema potremmo pensare a questi due momenti inaugurali e simmetrici della verità, a questi due punti di emergenza che sono per Freud il sogno di Irma e per Lacan il Seminario II, entrambi confluenti sul soggetto dell’inconscio e sul suo decentramento rispetto all’Io.
Freud si immerge nel sogno, nell’auto-analisi dei propri sogni, dopo il primo momento di delusione rispetto alle false “verità dei suoi nevrotici” quasi sospinto da una forza divinatoria. Moderno auspice, nella frase dell’esergo “ Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” è contenuta la determinazione del ricercatore che, consapevole di immergersi in uno spazio che la tradizione romantica aveva avvolto di un alone misterioso ed infernale, vuole uscirne con un metodo di decifrazione della struttura del sogno, orientato dalle tracce lasciate sulla pista dai movimenti del desiderio inconscio, dai suoi avanzamenti e dai suoi scarti.
In questo percorso il sogno di Irma [8] è il punto di ingresso in cui Freud si libera dalle identificazioni immaginarie del suo Io e avanza come soggetto dell’inconscio oltre lo spettacolo angoscioso delle placche difteriche della gola di Irma, autentiche colonne d’Ercole della contemporaneità. Freud supera l’immagine, insostenibile per lo sguardo, della gola di Irma, questa specie di antro infernale, sorta di passaggio che nel simbolismo onirico della soglia, raffigurava secondo Silberer,[9] il proponimento del risveglio provocato dall’insopportabile dell’angoscia. Freud però non si sveglia e, nell’osservazione critica che fa degli usi astratto-simbolici del fenomeno funzionale, ne scopre un’altra possibilità, quella di un’attività di controllo, il censore, che rimane desta anche durante il sonno, rivolta al sogno.
Quindi resta sveglio, Zenzor lui stesso, a spiare per noi il segreto del sogno anche mentre dorme, superando con il suo desiderio di sapere, l’ombelico infernale del sogno con cui si concludeva la serie delle immagini femminili racchiuse nella figura mista di Irma, proseguendo contro gli antagonisti immaginari la lotta del suo desiderio di discolparsi di fronte agli insuccessi della nevrosi. Cosa glielo consente? Lacan non ha dubbi: Freud è un “duro”[10] (come soggetto dell’inconscio) e avanza nel sogno oltre la scomposizione immaginaria dell’Io per comprendere per noi i rapporti ultimi dell’uomo con il simbolo, con la parola, (per il Lacan del seminario II). Ma, l’immagine della formula della trimetilamina, punto finale della linea difensiva del sessuale attraverso la serie associativa Fleisch, opposta a quella di Otto, sarà l’ultimo elemento proiettato nell’ “altra scena” del tribunale onirico di Freud con una sentenza finale che assolve, ma non con formula piena. Il percorso conoscitivo sarà stato dall’irrappresentabile spalancato sulla gola di Irma, oscurità impenetrabile, sorta di rovescio informe della carne, come un quadro di Bacon, fino alla formula del chimico Freud, tentativo ultimo di dare una rappresentabilità al rapporto sessuale che non c’è, di scriverlo in una concatenazione di legame fra atomi. Per Lacan la colpa ultima di cui Freud cercherà di liberarsi, rivolgendosi ai futuri analisti che lo guarderanno nelle generazioni successive, sarà proprio la sfrontatezza di questo desiderio di conoscenza con l’attenuante richiesta e concessa di essere stato solo il mediatore della nascita della verità dell’inconscio: “è il mio inconscio, è la parola che parla in me, al di là di me”.[11]
Ancora oggi quando si pensa alla sua fantasia comunicata a Fliess (“ In questa casa il 24 luglio 1895 al dottor Sigmund Freud si svelò il segreto del sogno”) è impossibile non essere percorsi da un brivido. Il cinema, questa “vibration de la rèalitè”, per usare un’espressione di Hélèn Cixous,[12] ce la trasmette a distanza di più di cento anni.

note:
[1] L.Andreas Salomè, I miei anni con Freud, Newton Compton, Roma 1980, p. 114-115.

[2] H.Wallon, L’acte perceptif et le cinéma, Revue International de filmologie, n.13,1953.

[3] J.L.Baudry, L’effét cinèma, Edition Albatros, Paris 1978, p.47 in L.Albano Lo schermo dei sogni, p.24.
[4] C.Metz, Cinema e psicoanalisi, Marsilio, Venezia 2006.
[5] J.Lacan, Il Seminario II, Einaudi, Torino, 2006, p.10.
[6] S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Boringhieri, Torino, 1966 p.521
[7] C.Metz, Cinema e psicoanalisi, Marsilio, Venezia 2006, p.87.

[8] S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino, 1966, p.108.
[9] Ibi, p.461,462.
[10] J.Lacan, Il Seminario II, Einaudi, Torino, 2006, p.179.

[11] Ibi, p.197.
[12] H.Cixous, La fiction et ses fantómes. Une lecture de l’Unheimliche de Freud, Poétique 1972, p.204.